
Le microplastiche nel cibo arrivano a tavola senza farsi notare-biopianeta
Un’esposizione invisibile accompagna i gesti di ogni giorno: capire come funziona è il primo passo per ridurne l’impatto.
Mangiare, bere, respirare: sono azioni naturali che compiamo senza pensarci. Eppure, proprio in questi momenti apparentemente innocui, il nostro organismo entra in contatto con sostanze che non fanno parte della natura umana. Non si vedono, non si sentono e non hanno sapore, ma sono sempre più presenti.
Negli ultimi anni la ricerca scientifica ha iniziato a osservare con maggiore attenzione ciò che finisce nel nostro corpo insieme agli alimenti e all’aria. I risultati sono terrificanti e ci impongono la necessità di una maggiore consapevolezza su un fenomeno che riguarda tutti, nessuno escluso. Il punto non è vivere nel timore, ma comprendere cosa sono queste particelle, perché se ne parla sempre di più e quali strategie realistiche possono aiutare a limitarne l’assorbimento nel tempo.
Cosa sono le microplastiche e come le ingeriamo
Le microplastiche sono frammenti minuscoli che derivano dal degrado dei materiali plastici più grandi. Si formano nell’ambiente, ma anche durante l’uso quotidiano di oggetti comuni. Possono finire nell’acqua, nei cibi e persino nell’aria, entrando così nel nostro organismo senza che ce ne rendiamo conto. Le stime più accreditate indicano che ogni persona ne assume decine di migliaia ogni anno, una quantità che cresce se si considera anche l’inalazione.

La loro dimensione ridotta è ciò che le rende problematiche. Alcuni studi ci dicono che queste particelle siano in grado di superare le normali barriere del corpo e di accumularsi nei tessuti, favorendo processi infiammatori e stress cellulare. Una ricerca pubblicata nel 2024 sul New England Journal of Medicine ha evidenziato la presenza di microplastiche in placche arteriose, associandole a un aumento del rischio cardiovascolare nel medio periodo. Si tratta di risultati che richiedono ulteriori conferme, ma che hanno acceso un dibattito scientifico di grande rilievo.
Parallelamente, la ricerca si sta muovendo anche su un altro fronte: capire se e come sia possibile ridurre l’assorbimento di queste particelle. In questo contesto si inserisce uno studio coordinato dal professor Umberto Cornelli della Loyola University Chicago, che ha analizzato il comportamento di una fibra naturale già nota in ambito nutrizionale. I ricercatori hanno osservato che, associata a un acido organico, questa sostanza è in grado di legarsi alle microplastiche presenti nel tratto digestivo, favorendone l’eliminazione.
Nei volontari coinvolti, l’effetto osservato è stato un aumento significativo dell’espulsione di queste particelle attraverso le normali funzioni intestinali. Non una soluzione definitiva, ma un passo concreto verso la riduzione del carico complessivo che il corpo può accumulare nel tempo.
Da queste evidenze è nato un integratore sviluppato dall’azienda italiana Guna, pensato come supporto e non come rimedio risolutivo. Gli stessi ricercatori sottolineano che nessun prodotto può sostituire uno stile di vita attento e una dieta equilibrata, elementi chiave per limitare l’esposizione alle microplastiche. Ridurre il consumo di plastica monouso, preferire acqua e alimenti conservati in materiali alternativi e mantenere un’alimentazione varia sono strategie semplici ma efficaci. Informarsi, senza allarmismi, resta lo strumento più potente per proteggere la salute in un ambiente sempre più complesso.



